05
Lug 2017
Sant’Agata al Carcere

Sant’Agata al Carcere è il nome con cui è stata ribattezzata la chiesa costruita su quanto restava del Bastione del Santo Carcere (che faceva parte delle mura di Carlo V, struttura edificata in età aragonese e poi rafforzata nel XVI secolo, che difendeva la porta nord nota anche come porta del Re), in base alla storia della Santa Patrona di Catania che, secondo la tradizione, prima di subire il martirio, fu imprigionata, dopo i 30 giorni trascorsi per un tentativo di “rieducazione” nella casa della corrottissima matrona Afrodisia, in una piccola cella dove ancora oggi è possibile vedere le impronte dei piedi di Agata.

La chiesa, proprio per via della stratificazione storica che mostra (parti della cinta muraria greca del VI secolo a. C. e strutture monumentali di epoca romana del II secolo d. C.), costituisce un complesso di notevole interesse. A partire dall’Alto Medioevo la chiesa diviene uno dei luoghi centrali del culto agatino: nel XV secolo, su commissione della famiglia Guerrera, sorge una prima chiesa (con un ingresso a sud, ancora leggibile nel presbiterio attuale) poi ricostruita e ampliata dopo il terremoto del 1693 su progetto dell’architetto Francesco Battaglia che aggiunse la navata e spostò l’ingresso a est. Per questo la chiesa è in stile barocco siciliano, la facciata fu disegnata da Giovan Battista Vaccarini, mentre il portale strombato – recuperato dalla Cattedrale – è in stile romanico pugliese, l’unico esempio di questo stile ancora visibile in Sicilia. Il portale è realizzato in marmo bianco con arco a tutto sesto ed è retto da sei colonnine – decorate con tre motivi diversi (a scacchiera, a spina d pesce e a losanghe) che si ripetono lungo le strombature dell’arco stesso – e da due pilastrini su cui sono scolpite figure e simbologie bibliche, animali reali e immaginari, intrecciati con una modanatura a motivo floreale. Il portale fu costruito su richiesta di Federico II e proprio quest’ultimo sarebbe rappresentato, seduto su uno scranno, sopra uno dei sei capitelli.

Anche all’interno della chiesa convivono stili diversi, due corpi che dialogano tra loro: la parte anteriore è barocca, con una volta a botte, mentre quella absidale, costituita dalla campata a crociera con tetto a costoloni terminanti in uno stemma circolare, è in stile gotico con colonne sormontate da capitelli corinzi. Da notare sono anche le due lastre in pietra lavica che si trovano accanto all’altare del Crocifisso e che – sempre secondo la tradizione – avrebbero fatto parte del carcere che imprigionò Agata nel 251, prima che la fanciulla venisse martirizzata. E’ proprio su una di queste lastre che sono visibili le impronte dei piedi della ragazza. In merito a questo episodio della vita della Santa esistono numerose versioni fra cui la più nota vuole che, condotta davanti al pretore Quinziano che la interrogava e la esortava a venerare i pagani, e che – soprattutto – la desiderava Agata abbia risposto “E’ più facile che si rammollisca questa pietra che il mio cuore alle tue blandizie” e che così dicendo, battendo i piedi sul pavimento abbia lasciato le proprie impronte.

Proprio accanto a questo lastrone lavico si apre un angusto passaggio che conduce all’interno della cella di Agata, un locale di epoca romana attiguo alla chiesa. In questa cella Agata, secondo quanto riportato negli Atti del Martirio, sarebbe stata rinchiusa prima e dopo il martirio delle mammelle e qui avrebbe anche ricevuto la visita di San Pietro e dell’Angelo che la guarirono dalle sue ferite in nome di Cristo. Recenti indagini archeologiche ritengono che il locale in origine non fosse un carcere: l’analisi della struttura con grandi nicchioni e un mosaico pavimentale fanno pensare piuttosto a una sepoltura monumentale o a una favissa (ossia il luogo riservato agli oggetti votivi nei pressi di un santuario) di un tempio, forse legato al culto imperiale. La vicinanza con l’anfiteatro e la connessione con le strutture ritrovate sotto la vicina chiesa di Sant’Agata la Vetere fanno pensare a un unico complesso con funzione pubblica che sorgeva dove cominciava il declivio della collina di Montevergine.

All’interno della chiesa sono conservate opere di grande pregio. Fra queste la più preziosa è la pala d’altare che rappresenta Sant’Agata condotta al martirio, un olio su tavola di Bernardino Niger del 1588. Ma per il culto agatino, di fondamentale importanza è anche la cassa – esposta tra la nicchia delle Orme e l’ingresso al carcere – che servì per la traslazione delle reliquie di Sant’Agata durante il viaggio di ritorno da Costantinopoli. La tradizione, infatti, vuole che nel 1040 le reliquie siano state trafugate dal generale bizantino Giorgio Maniace e che per 86 anni rimasero lì finché Sant’Agata non apparve ai soldati Giliberto e Goselmo, ordinando loro di riportarle nella sua patria.

PH Salvo Puccio

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